Il Convegno “Fusionalità- Storia del concetto e sviluppi attuali” sviluppa in una giornata e mezza un tema fondante e identitario per un gruppo, un Centro (Centro di Psicoanalisi Romano), una generazione di psicoanalisti, che rappresenta un importante e significativo contributo alla psicoanalisi italiana, all’interno di un dibattito internazionale. Il clima è intriso di emozione, tutti i presenti, romani e non, sono coinvolti in prima persona in quanto il tema della fusionalità ha ampiamente contribuito alla loro formazione ed esperienza teorico-clinica. Occuparsi di fusionalità significa volgere una maggiore attenzione ai livelli primitivi e centrali della relazione e alle primissime fasi dello sviluppo della mente. Con questo convegno si discute per la prima volta pubblicamente del libro “Fusionalità – Scritti di psicoanalisi clinica” (Neri et al., 1990)[1].
Nicoletta Bonanome introduce contestualizzando il momento storico e politico in cui il gruppo sulla fusionalità ebbe inizio e racconta come “certi pensieri antichi abbiano una vita piena di avventure”; il viaggio psicoanalitico in quegli anni stava trasformandosi da esperienza “del far scoprire” in esperienza che “fa nascere”. Il modello di una psicoanalisi decodificante, interprete di un inconscio rimosso, stava per essere sostituito da un modello costruttivo di un “apparato per sentire, essere e pensare”.
Claudio Neri racconta la nascita del concetto di fusionalità, a partire dal clima di buona socialità che ha accompagnato e caratterizzato il gruppo di lavoro, costituito da Claudio Neri, Lydia Pallier, Giancarlo Petacchi, Giulio Cesare Soavi, Roberto Tagliacozzo, che per dieci anni si è incontrato periodicamente per discutere di casi clinici ed esplorare le difficoltà di inquadramento teorico che ne potevano derivare. Neri descrive come abbia funzionato il gruppo, animato da uno scambio libero, e quanto ciò abbia potuto influire sullo sviluppo del concetto ed evidenzia piuttosto un sentire, un modo di fare psicoanalisi, un cambiamento di rotta.
Viene chiamata a intervenire, fuori programma, Lydia Pallier, quale esponente dello storico gruppo, che emozionata ringrazia Neri per avere descritto in modo toccante il loro lavoro di un tempo, in cui lo stesso funzionamento del gruppo, basato su un buon rispecchiamento nel rispetto delle individualità, ha favorito lo sviluppo proprio del concetto di fusionalità, inteso non come una simbiosi, che invece è da considerarsi fisiologica, né come una fase di sviluppo, ma come qualcosa che comincia dall’inizio della vita e continua fino alla fine.
Giovanni Meterangelis evidenzia quanto questo gruppo di lavoro ed il tema sviluppato si inserisse all’interno dell’area della Psicoanalisi Relazionale, a livello internazionale, e abbia rappresentato pertanto una svolta nell’affermare il primato motivazionale dell’affetto su quello pulsionale, convergendo con le teorizzazioni di Kohut sull’Oggetto Sé. Riprende dagli autori italiani il concetto per cui lo stato di fusionalità elargisca esperienze di estremo benessere e senso di realizzazione nel bambino, così come, al contrario, carenze ambientali nelle fasi precoci dello sviluppo siano da ritenersi patogenetiche. Evidenzia quanto l’indagine analitica possa essere percepita una minaccia perché prende in considerazione aspetti inconsci che sono il prodotto di esperienze traumatiche profondamente difese. Interviene massicciamente in questi pazienti la paura del cambiamento limitando la costruzione di nuove strutture psichiche, per cui nel processo analitico il setting dovrà essere improntato alla costruzione di un sentimento di sicurezza e di fiducia.
Alfredo Lombardozzi colloca temporalmente e concettualmente nel mondo questo gruppo di studio e descrive come la psicoanalisi cominci a studiare gli stati primitivi della mente, in relazione al rapporto tra soggetto e oggetto accudente, tra madre e bambino, come tra analista e paziente. Pone la fantasia di fusionalità per i vari autori del gruppo base a confronto col pensiero di Kohut, in riferimento all’Oggetto Sé, con le relative implicazioni nel campo analitico: la condizione fusionale è uno stato in cui il soggetto in quanto dotato di un Sé relativamente integro, può riconoscersi nella relazione (amorosa, analitica, sociale) e introiettare diverse funzioni correlate ai suoi distinti bisogni. Nella relazione analitica avvengono transfert di Oggetto Sé di tipo fusionale, che appagano un bisogno arcaico di coesione, inglobando l’oggetto; in tal modo la relazione diventa una struttura, che consente l’oscillazione fra stati fusionali e non fusionali. Lombardozzi offre due immagini molto evocative: uno stormo di uccelli che si muove all’unisono in quanto gruppo (modo fusionale), e tuttavia mantiene integre le individualità dei singoli uccelli (separatezza); la luna davanti alla finestra della camera da letto[2], come un’aspirazione ad un senso di coesione, che passa attraverso un sentimento di fusione, per definizione illusoria. Nel dibattito a seguire, scorre molta emozione “toccante, caldo, oggi si celebra il patrimonio di questa famiglia – Centro Roma 1”, con interventi intrisi di ricordi e percorsi personali, in riferimento al concetto, alle proprie formazioni, ai propri percorsi, a quanto avere in mente la fusionalità orienti l’analista. Emerge cruciale un interrogativo: Quanto la fusionalità è da considerarsi uno stato fisiologico o, versus, patologico? Quanto svolgerebbe una funzione patogenetica sia quando assente, sia quando troppo presente? In che modo l’orientamento del singolo analista in tal senso impatta sulla relazione e sull’intervento?
Nel pomeriggio, moderato da Giuseppe Moccia, Stefano Bolognini esprime profonda gratitudine verso il gruppo di base e verso questo concetto, che ha sviluppato e approfondito a sua volta, a partire dalla fisiologia, da come funzionino bene le cose nella vita. Gli psicoanalisti hanno gli strumenti per cogliere gli equivalenti psichici dei primi scambi vitali intercorporei; egli utilizza l’immagine delle mucose, aree di definizione e di convogliamento al confine tra sé e l’altro (bocca - latte, genitali, organi di senso), mettendone in comunicazione gli interni, e non solo le superfici come nella pelle. L’analista ha la possibilità di comprendere ed intervenire sugli equivalenti psichici di tali stati intercoporei, a partire da ciò che accade nel campo analitico, così come sono stati vissuti dal paziente i primi stati dello sviluppo: ci sono pazienti che hanno potuto godere di un intake con la madre sufficientemente buono e con loro si può realizzare pertanto facilmente una luna di miele analitica, ovvero una buona situazione di lavoro equivalente a una suzione arcaica soddisfacente. Viceversa, altri pazienti che hanno sperimentato relazioni primarie disturbate, ripetono in analisi la loro vicissitudine iniziale, e chiedono all’analista di resistere e non morire. In entrambi i casi, il coinvolgimento e il ruolo dell’analista sono determinanti e implicano il contatto con quegli introietti del paziente. La relazione primaria disturbata porta a ricercare il contatto laddove non lo si può trovare, da chi non lo può dare e allora dalla ricerca della fusionalità si va verso la confusione.
I lavori del pomeriggio proseguono con la relazione di Anna Maria Speranza che offre alla lettura del fenomeno una maggiore complessità, in quanto proviene da un vertice non strettamente psicoanalitico, quale l’Infant Research. Gli studi di Sander, Stern e del Gruppo di Boston hanno dimostrato le competenze del neonato all’interazione, e mostrato come stati “fusionali” possano essere concepiti fin dall’inizio della vita. La rappresentazione del neonato attivo, dotato di stati emotivi differenziati e di capacità complesse per l’interazione e l’autoregolazione non è in contrasto con lo stato di fusionalità, per cui sembrerebbe che entrambe le esperienze siano possibili fin dall’inizio. Le modalità che alterano l’esperienza di una buona fusionalità non sono solo le “rotture traumatiche” di uno stato fusionale, quanto la mancata costituzione di un’area di funzionamento del Sé. La possibilità di sperimentare una buona fusionalità è dunque fondamentale sia nello sviluppo precoce che nei momenti successivi della vita e la considerazione delle compromissioni e delle vulnerabilità che possono associarsi ad un fallimento possono rappresentare un elemento centrale del lavoro clinico.
Nell’introdurre e moderare la mattina di domenica, Cono Aldo Barnà pone l’accento sull’attenzione minuta ai livelli di integrazione, all’analista, al transfert dell’analista e al linguaggio, tutti aspetti cui il Centro di Psicoanalisi Romano sembra avere sviluppato una sensibilità particolare, a cui sono state formate generazioni di analisti. Tra questi, Bonfiglio e Fonda, autori che nel panorama attuale hanno ampiamente rivisitato il tema della fusionalità con un loro contributo personale.
Basilio Bonfiglio, attraverso un appassionante e attento viaggio storico, ripercorre l’evoluzione del lavoro teorico-tecnico del gruppo di studio attorno al concetto di fusionalità, identificata da tale gruppo come una fase dello sviluppo emozionale (normale e/o patologica), situata fra la vita intrauterina e la comparsa dei fenomeni schizo paranoidi. Una teorizzazione ancora in corso - sottolinea Bonfiglio - così come la clinica, -e questo convegno lo dimostra, perché richiede trasformazioni emotive oltre che di pensiero.
Evidenzia l’evoluzione di un atteggiamento e di un pensiero nel gruppo, sul tema della fusionalità, a partire, come premessa, da una visione di un’unità somatopsichica e unificante della personalità basata sul concetto di Sè (modello di mondo interno strutturato da relazioni oggettuali), contrapposta al modello strutturale tripartito (Io, Es, Super-Io), continuando così il dialogo continuo fra mondo interno e realtà esterna, in interazione continua e reciproca. Attraverso il filo rosso della clinica, ripercorre tre fasi dello sviluppo del pensiero nel gruppo di lavoro: da un iniziale atteggiamento teso a percepire le richieste di adesività e di piena sintonia del paziente, e delle sue curiosità verso l’analista, come comportamenti difensivi e aggressivi, che negano l’alterità, ad una lettura per cui le richieste fusionali del paziente implicano necessità di contenimento, chiamando in causa l’analista capace di condizionare l’andamento della relazione, soprattutto con le sue carenze di sintonia. Dalla clinica alla teoria, si sviluppa così l’idea che la fusionalità possa essere intesa come attività psichica primordiale indifferenziata, nonchè fase evolutiva cruciale nello sviluppo emozionale che si colloca prima della fase schizoparanoide. Il contenimento fusionale è anteriore e necessario alla competenza di generare fantasie, in quanto la fantasia è già un atto interpretativo di ciò che si percepisce, implica un livello di sviluppo successivo, una soggettualità che nella fase fusionale ancora non esiste e che invece è presente nella fase schizo paranoide. Nella fusionalità, il bambino (o il paziente) non ha la fantasia di, bensì utilizza concretamente funzioni svolte somaticamente e psichicamente dalla madre (analista). Questo ha delle implicazioni teoriche, oltre che cliniche: l’ambiente primario, se carente (eventi separativi o legami familiari confusivi) può dare origine a esperienze traumatiche, foriere di scissioni del Sé precoci e profonde di parti relative alle sorgenti del mondo pulsionale e oggettuale. Un armonioso rapporto nella vita richiede complementarietà tra queste due modalità: vivere fiduciosamente il momento di abbandono così come la certezza di potere recuperare l’identità, così come in analisi coesistono spinte di individuazione con bisogni fusionali, il desiderio sempre vivo di essere tutt’uno con la madre, con relative ansie di perdita di sè.
Paolo Fonda descrive la fusionalità come uno dei meccanismi elementari dello psichismo umano (normale e fisiologico) nella vita mentale sia infantile che adulta, all’interno di una dialettica tra fusione e separatezza, laddove tuttavia la fusione totale è un mito che non esiste se non sotto forma di una fantasia (desiderio o paura). È essenziale per l’essere umano usufruire, prima dello scambio cosciente di simboli, e in parallelo a questo, di un collegamento alla rete delle altre menti, per elaborarvi i propri contenuti, per introiettare quelli altrui, attraverso quindi una fluttuazione fusionale o scambi proiettivi/introiettivi, una specie di esogamia mentale. La fusione costituisce un varco tra la soggettività e l’esterno, L’inconscio ha nella fusionalità un modo per comunicare con l’esterno, by passando l’Io. Un flusso inconscio –inconscio tra il soggetto e l’oggetto. Ogni individuo vive continuamente, in modo fisiologico, una componente fusionale in tutti i rapporti oggettuali, insieme alla separatezza, attraverso un sofisticato sistema di confini continuamente cangianti, in un delicato equilibrio di aree fuse e altre separate (visione binoculare della realtà). Più esattamente, per poter godere di una sana e indispensabile fusione, bisogna avere sviluppato una sufficiente coesione del Sè, confini solidi, una buona separatezza, e viceversa, per accedere alla separatezza, bisogna avere sperimentato una buona fusione iniziale. La simbiosi da adulti è patologica, laddove le aree fusionali hanno una struttura rigida, che impedisce loro una vitale oscillazione, mentre invece, per esempio, nell’empatia il presupposto è il contatto immedesimativo in una condizione di separatezza, la comunicazione intima tra due persone è possibile sole se hanno conseguito separatezza, un senso di sè solido e delimitato. Fonda riprende inoltre l’essenza dell’Edipo (Loewald e Ogden) e l’attualità del concetto: l’incesto è percepito come sbagliato perchè distrugge la demarcazione fra una forma fusionale madre-bambino (identificazione primaria) e una relazionalità oggettuale differenziata con la medesima persona. La capacità di stabilire con gli altri relazioni in cui separatezza e fusionalità sono in una vivace e sana dialettica, dipende proprio dall’integrità di questa barriera di demarcazione, che permette a questi due livelli di non con-fondersi ma di interagire.
Nel dibattito conclusivo si sottolinea il debito collettivo al convegno per avere posto una nuova attenzione al tema e raccolto tanti anni di ricerca approfondendo un concetto, inizialmente attaccato, che per affermarsi ha dovuto fare molta strada. La rilettura emersa in questi due giorni crea una nuova integrazione fra Infant Research, studi sulla fusionalità e approccio kleiniano, prima in contrapposizione, oggi in dialogo. Il convegno sembra rappresentare un passaggio intergenerazionale fra psicoanalisti di tre epoche, dagli anni ‘70 ad oggi. Il dibattitto sottolinea il rapporto sia complementare che conflittuale tra fusionalità e separatezza, in una dialettica continua lungo tutto l’arco della vita. Nella relazione analitica viene per tanto posta attenzione alle potenzialità, a vantaggio di sviluppo e crescita e non solo revisione del passato. Neri conclude evidenziando la connessione e la corrispondenza della fusionalità con quella “buona socialità”,che ha contraddistinto il funzionamento del gruppo fondatore, così come il clima di queste due giornate. Una buona e generosa socialità si è espressa, infatti, attraverso tutti gli appassionati contributi di coloro che sono intervenuti e anche attraverso un dono che ognuno ha potuto portare con sè, il bello acquarello di Stefania Salvadori (Senza titolo, 2010).
(1) Neri C., Pallier L., Petacchi G., Soavi G.C., Tagliacozzo R. (1990), Fusionalità- scritti di psicoanalisi clinica. Borla, Roma.
(2) Musil R. (1930), L’uomo senza qualità, Einaudi.
Vedi anche
Giovanni Meterangelis, Fusionalità e svolta relazionale. 2021
In ricordo di Giulio Cesare Soavi, di Claudio Neri (2021)
In ricordo di Giulio Cesare Soavi. Video intervista a cura di Paolo Boccara e Giuseppe Riefolo (2012)
Soavi G.C., Deficit della struttura del «sé» e nevrosi ossessiva (deficit fusionale e struttura del sé). 1993
Giulio Cesare Soavi: "Precisazioni sulla psicologia del tennis", 1988