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Report di Donatella Verrienti sulla giornata di studio: “La Cura Psicoanalitica Contemporanea” (16 febbraio 2019)

In apertura di questa Giornata di Studi Intercentri Lucia Monterosa e Alfredo Lombardozzi presentano la traccia che i diversi analisti svilupperanno nel corso delle loro relazioni proponendo come focus di riflessione l’evoluzione della cura psicoanalitica odierna all’interno di un processo che mira ad individuare possibili estensioni teorico-cliniche del metodo classico. L’ispirazione al seminario nasce infatti dal volume di recente pubblicazione “La cura Psicoanalitica Contemporanea. Estensioni della pratica Clinica” a cura di Tiziana Bastianini e Anna Ferruta, raccolta di lavori di vari autori che, testimoni di un ampliamento e diversificazione delle popolazioni cliniche, hanno avviato un proficuo movimento di ricerca che si interroga ed esplora le possibili trasformazioni del metodo psicoanalitico e dei suoi paradigmi fondativi. Nella giornata di oggi si assiste dunque ad una sorta di attualizzazione di questo dialogo a più voci che prende avvio dalla presentazione del lavoro di René Roussillon, psicoanalista con funzioni di training della Sociétè Psychanalytique de Paris. Parlare delle estensioni della psicoanalisi – ci dice Roussillon – è di fondamentale importanza per garantirne la sopravvivenza e lo sviluppo ma al contempo il quesito riguarda come questo processo di cambiamento possa avvenire nel rispetto delle sue fondamenta. Come, dunque, si possono “pensare psicoanaliticamente le estensioni della psicoanalisi?”. Per questo occorre tornare alla regola fondamentale di Freud. La sua celebre formula del 1932: ”Wo Es war soll Ich werden”- cita Roussillon - sembra descrivere perfettamente la sfida del processo fondamentale del lavoro psichico nel “lavoro di appropriazione soggettiva”, un percorso che porta ciò che è desoggettivato a divenire soggetto, trasformando la qualità complessa e marasmatica della materia dell’Es nell’io-soggetto. Per rendere pienamente intellegibile il modo in cui questa trasformazione possa avvenire nella situazione analitica bisogna far riferimento alla formulazione che Freud fece della prima regola fondamentale attraverso la metafora del treno: “Immaginate di essere su un treno e di descrivere il paesaggio che sfila davanti ai vostri occhi a qualcuno che non lo vede (1913-1914). In questa metafora viene descritto il lavoro psichico richiesto per rendere cosciente l’esperienza soggettiva, in cui si prevede una doppia trasformazione, una prima dal corporeo alla rappresentazione visiva, ed una seconda che traduce l’immagine visiva nell’apparato verbale. Se l’appropriazione soggettiva è dunque lo scopo del lavoro psicoanalitico ne consegue che il dispositivo analizzante deve essere predisposto a svolgere la funzione di simbolizzazione in relazione a diverse tipologie di pazienti e di situazioni cliniche, sia dove il registro verbale sia più accessibile - in organizzazioni psichiche governate dalla presenza di rimozioni o dissociazioni moderate - sia dove prevale il campo senso-motorio come esito di esperienze traumatiche e di rottura psichica. La clinica di queste ultime organizzazioni (disturbi dell’area autistica, psicotica, narcistico-identitaria, psicosomatica, antisociale) mostra come il potere disorganizzante di alcune esperienze abbia sollecitato l’instaurarsi di meccanismi di difesa volti a evitare esperienze con tali qualità e generato l’incistamento dei residui non integrati che sfuggono al legame e alla rappresentazione di parola e che sono destinati a ripetersi attraverso “modalità di comunicazione primitiva” (McDougall). Il destino di queste esperienze disorganizzanti, accadute precocemente e in assenza di una funzione di accompagnamento da parte dell’ambiente in grado di riconoscerle e di fornire un adeguato rispecchiamento, è dunque quello di rimanere nell’apparato psichico e di riprodursi attivamente attraverso la coazione a ripetere che, come affermava Freud in Costruzioni nell’analisi (1937), è contemporaneamente anche una coazione ad integrare aspetti legati alla storia traumatica. Queste realtà cliniche fondano la necessità di un’estensione della pratica psicoanalitica tradizionale che ne contempli le caratteristiche in relazione a tre diversi assi. Il primo livello riguarda il dispositivo analizzante, in quanto la situazione lettino–poltrona non risulta idonea e sufficiente a registrare canali di comunicazione non legati al verbale ma con prevalente contenuto sensoriale-corporeo e presuppone la necessità di ideare strategie nuove che ottimizzino i dati e la capacità di simbolizzazione della situazione analizzante. Il secondo asse riguarda il metodo e la possibilità di aprire all’ascolto di forme di associatività eteromorfe e polimorfe, un’“amalgama di materiali” nei quali si mescolano e si associano alle forme verbali dati derivanti dalla percezione e dalla senso-motricità. Di fondamentale importanza può risultare pertanto un ascolto che avvicini tali pazienti cogliendo il prevalente uso del linguaggio del corpo e dell’atto e ne rimandi la comprensione attraverso un linguaggio prossimo, a volte speculare, che rispetti i sistemi di sicurezza fondati sui meccanismi difensivi del paziente e disponga soluzioni idonee a tener conto delle singole specificità in un assetto che implica contaminazioni con la tecnica di psicoanalisi dei bambini e degli adolescenti. Il terzo asse si riferisce all’evoluzione dei paradigmi teorici di riferimento e alla necessità di concentrarsi su concetti di presenza ed incontro più che di assenza e riparazione. Roussillon propone a riguardo una serie di revisioni teoriche che spostano il focus dell’indagine analitica dal concetto di oggetto perduto a quello di oggetto non trovato, dal lutto alla delusione narcisistica primaria laddove in questi pazienti il fallimento più o meno esteso della funzione rispecchiante degli oggetti narcisistici originari è in grado di ostacolarne le capacità simbolizzanti e integrative, facendo sì che l’ombra dell’oggetto ricada sull’io in virtù di una sua incorporazione ed assimilazione. Mentre dunque la simbolizzazione viene vista classicamente a partire dalle forme dell’assenza, della separazione e dal lutto dell’oggetto, il quadro dei disturbi narcistico-identitari sposta l’accento sulle forme dell’incontro, sulla presenza e sul modo di essere presente dell’oggetto, sulla sua funzione di “medium malleabile”(Marion Milner), elementi che possono favorire o viceversa essere di ostacolo ai processi di simbolizzazione primaria ed all’accessibilità rappresentazionale della personale storia traumatica.

A Francesco Barale spetta poi il compito di riesaminare i temi proposti da Roussillon avviando, attraverso una lettura puntuale ed attenta del suo contributo, una messa a fuoco degli elementi che in questa estensione del metodo psicoanalitico si pongono non solo in connessione di continuità con l’approccio tradizionale ma anche in evidente discontinuità. La sua attenzione si sofferma in particolare sul concetto di transfert che soprattutto nelle nuove situazioni cliniche - dove acquista una valenza iperbolica - non può definirsi soltanto in relazione alla riedizione del rimosso o di rappresentazioni già istituite che muovono dagli oggetti originari verso l’analista ma diventa veicolo di espressione e comunicazione dei fallimenti stessi dei processi di simbolizzazione, una dimensione “preistorica”, pre e proto-rappresentazionale che riassume le prime iscrizioni ancora indifferenziate tra soggetto/oggetto. Seguendo questo presupposto lo spazio di analisi è dunque il luogo in cui si trasferisce il rapporto del soggetto con la stessa funzione simbolizzante, ricerca della traccia dell’oggetto simbolizzante con le sue risposte e gli eventuali scacchi ed al contempo esperienza nuova, vibrante e creativa potenzialmente in grado di riavviare il gioco della simbolizzazione. Seguendo a ritroso il percorso teorico che da Roussillon rimanda a Winnicott - commenta Barale - l’oggetto originario non è pertanto solo un oggetto “da” simbolizzare, ma soprattutto “per” simbolizzare, rimarcando come esso costituisca un fondamentale “tramite” per lo sviluppo delle capacità rappresentazionali e sia la qualità stessa dell’oggetto simbolizzante a creare i presupposti per la complessa costituzione di un senso di alterità. Fondamentale a questo proposito è la capacità di ascolto dell’analista, di come questa possa inceppare o viceversa favorire la simbolizzazione attraverso un sentire polifonico e polisensoriale dell’espressività “melodica” del paziente, inevitabile riedizione di presenze e fallimenti del dispositivo simbolizzante. Queste considerazioni portano pertanto a dare una nuova e diversa connotazione al controtransfert negativo non più leggibile in funzione di un attacco al legame o di un narcisismo distruttivo bensì nella dimensione di un bisogno inevaso di iscrizioni diverse, ricerca di funzioni di interlocuzione ed integrazione differenti rispetto a quelle sperimentate. Anche in una connotazione “negativa” è quindi condizione imprescindibile perché il soggetto possa dirigersi verso un’appropriazione soggettiva di sé e della propria storia in grado di lenire la sofferenza legata a tutto ciò che della materia psichica non ha potuto avere rappresentazione.

Altrettanto ricca e stimolante di riflessioni, la sessione pomeridiana riprende con le relazioni di Tiziana Bastianini e di Anna Ferrutache ci introducono subito in quel laboratorio vivente che è la stanza di analisi dove la disposizione permanente alla ricerca esplora forme eterogenee di funzionamento psichico e si interroga su come creare modalità idonee affinché possa prendere forma l’esperienza analitica. La riflessione proposta da Tiziana Bastianini pone l’accento sulla necessità di porre ascolto e riconoscimento alle diverse variazioni che riguardano il destino dell’affetto nelle sue molteplici qualità espressive dalla sfera corporea, motoria, sensoriale a quella psichica e simbolica, tutte con una prevalente valenza comunicativa rivolta all’”essere umano prossimo” e in attesa di poter accedere ad un livello di significazione. Precipuo scopo del lavoro psicoanalitico è la possibilità di condurre i pazienti –soprattutto in quei funzionamenti psichici che si collocano al di là della psiconevrosi – a rappresentare e soggettivare quelle tessiture psichiche che, determinate storicamente dalla registrazione delle esperienze iniziali dell’incontro con l’oggetto, costituiscono il “conosciuto non pensato”. Tracce sotterranee dello psichico, che utilizzano un codice subsimbolico (Bucci 1997) e che spesso mostrano buchi, lacune negli investimenti e nelle rappresentazioni, aree in cui il dolore psichico diviene non elaborabile in quanto inscritto in condizioni in cui l’assenza non prevede uno sfondo di presenza. Un vuoto che diviene allora l’unico segno paradossale di pieno a cui aggrapparsi, “tutto ciò che ho è ciò che non ho” (Winnicott 1971). Attraverso una suggestiva esemplificazione clinica l’autrice ci mostra come nel campo analitico possa prendere forma la scena affettiva originaria del paziente, che condensa in sé elementi drammatici di ripetizione di una storia mai rappresentata ed al contempo possibilità inedite di riconoscimento e di simbolizzazione con un oggetto trasformativo (Bollas) che abbia il potere di rivitalizzare e scongelare aree anestetizzate e devitalizzate della mente. Se, come ricorda Freud (1915), l’inconscio è materia viva e capace di sviluppo, in costante tensione verso processi di riconoscimento ed integrazione, fondamentali divengono le forme di ascolto controtransferali pronte ad accogliere non solo registri rimossi, ma anche stati emotivi inesprimibili sul piano simbolico e metaforico e che si manifestano nel corpo, nell’azione e nelle risonanze dell’enactment. È qui, in un “dialogo tra inconsci” (Ferenczi), che si può assistere alla messa in atto di memorie traumatiche depositate in aree scisse della mente del paziente ed immesse nella relazione analitica dove è proprio la capacità dell’analista di risuonare con il proprio mondo interno a creare i presupposti di un potenziale “enacment generativo”, un terreno di trasformazione in cui possano germinare i nascenti Sé futuri.

Focus teorico del contributo di Anna Ferruta è invece il tema dell’emergenza e di come la dimensione dell’urgenza psichica postuli la necessità di ripensare al dispositivo analitico sulla base di una dimensione temporale che non si declini lungo uno sviluppo lineare ma secondo un parodosso che pone insieme hic et nunc e illuc et tunc in una contemporaneità di parametri temporali che prendono forma e materia nella scena analitica. Immaginare questa dimensione - sostiene l’autrice - ci aiuta a delineare una risposta metodologica più pertinente lì dove appare l’urgenza di una domanda che affonda le sue radici in territori di esperienze per lo più preverbali, vissute ma mai simbolizzate che premono per trovare espressione minacciando di destrutturare lo stesso funzionamento psichico. Questa “emergenza” di contenuti inconsci, a lungo tenuti a bada attraverso diversificati percorsi di evitamento e che a volte si presentano nella clinica dei breakdown giovanili o delle crisi dissociative dell’età di mezzo, necessita di un ascolto analitico che si orienti verso un campo interpersonale e sia pronto a cogliere il modo in cui avvengono e divengono gli eventi, luoghi di messa in scena di esperienze psichiche primarie ed al contempo matrici generative di potenzialità esperienziali non ancora vissute. In questa prospettiva l’autrice rivolge una particolare attenzione a quei momenti-eventi che, collocati a volte dopo lunghi periodi di stagnazione del percorso di analisi o viceversa in un primo incontro, accendono improvvise esperienze trasformative, aprono inattese cesure laddove gli echi controtransferali dell’analista consentono di entrare in risonanza con esperienze affettive primarie mai riconosciute dando così al paziente la possibilità di ri-vendicare o asserire per la prima volta ciò che di sé è andato perduto. Citando Ogden (2019) l’impresa analitica costituisce una sorprendente opportunità di divenire la persona che si ha ancora la potenzialità di essere, in un processo di soggettivazione che trova nell’istante, in questa particolare congiunzione spazio-temporale, il luogo di incontro di due menti che insieme danno forma e rappresentazione simbolica a esperienze di sé non ancora venute alla luce. Un momento, dunque, vivificante e trasformativo per entrambi i soggetti che ne prendono parte.

La giornata di studio, così intensa e ricca di spunti di riflessione, si conclude con due vignette cliniche presentate da Roberta Di Capua ed Antonio Braconaro da cui prende avvio la supervisione di Renè Roussillon e il dibattito con la sala.

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