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Report di Veronica Nicoletti sulla giornata Nazionale di Ricerca “They are people”: il contributo della Psicoanalisi alla psicopatologia e alla diagnosi nell’infanzia, nell’adolescenza e nella vita adulta (28 gennaio 2017)

La giornata si propone l’obiettivo di mantenere aperti il dialogo e il confronto tra la psicoanalisi e le istituzioni di cura insieme ai professionisti della salute mentale in esse coinvolti.

Come precisa Tiziana Bastianini in apertura, la salute mentale ha bisogno della psicoanalisi e lo psicoanalista nel suo lavoro non deve mai smettere di interrogarsi su quale psicoanalisi applicare per quale paziente, per quale sofferenza, a quale scopo. La psicopatologia psicoanalitica esplora le origini e i processi che conducono alla formazione delle strutture psichiche e delle loro espressioni patologiche e la diagnosi, se ancorata alla ricerca di un nesso tra il soggetto e la sua storia, può aiutare il clinico a proporre una cura che sia a “misura di paziente”. D’altro canto, attraverso il dialogo con i diversi saperi disciplinari, la psicoanalisi può trovare ulteriori stimoli per far progredire la sua ricerca in ambito clinico.

Giovanni B. Foresti sottolinea come il dialogo tra la psicoanalisi e la salute mentale possa essere un’opportunità per ripensare il caso clinico, superando l’antica ostilità verso i sistemi di classificazione categoriali, per aprirsi a sistemi diagnostici quali il PDM che sembra coniugare il vertice psicoanalitico con l’esigenza di ridurre il rischio di isolazionismo in cui l’istituzione psicoanalitica rischia di cadere, oltre a privilegiare il vissuto soggettivo del paziente e del terapeuta nella valutazione diagnostica. Si augura, inoltre, alleanze politico-istituzionali tra la psicoanalisi e la formazione nel campo della salute mentale, con gli esiti fertili riscontrati in altri paesi europei.

Vittorio Lingiardi, nella relazione dal titolo “Fare diagnosi oggi: SWAP200, PDM2, DSM5”, illustra efficacemente il principio ispiratore degli strumenti diagnostici (PDM e SWAP 200) utilizzabili per arrivare ad una formulazione diagnostica del caso clinico, che mantenga vivo il tormento tra l’esigenza di riconoscere una condizione psicopatologica - che sia generalizzabile - e quella di individuare in quale modo specifico essa si esprime in quel particolare paziente. Prendono così corpo, nella valutazione diagnostica, sia la considerazione della personalità di base del paziente e sia la consapevolezza del limite dello strumento stesso nel delineare la ricchezza della soggettività umana. Da questo punto di vista, anche il processo diagnostico richiede una certa alleanza con il paziente e appare significativo dare un significato alla diagnosi che la ponga al servizio del trattamento. Fondamentale risulta, quindi, inquadrare un disturbo nel ciclo vitale della persona, calandolo nella sua personalità e individuando, nel contempo, le risorse e potenzialità sane che costituiscono gli elementi basilari per una buona alleanza terapeutica e un buon esito del trattamento. Anche la soggettività del sintomo diventa un parametro diagnostico importante, così come l’esperienza relazionale dell’incontro e l’uso dei propri sentimenti controtransferali da parte del clinico, sia di quelli “soggettivi” (relativi alla relazione clinica con il paziente), sia di quelli “oggettivi” (legati alla specifica psicopatologia). Lingiardi conclude il suo intervento sottolineando come la bontà dello strumento diagnostico dipende dall’uso che il clinico ne fa e che “usare bene” la diagnosi consente di indirizzare anche il trattamento.

Tiziana Bastianini legge poi il contributo di Mario Rossi Monti sintetizzando i punti salienti della sua relazione, dal titolo “Diagnosi come nome, Diagnosi come verbo”. Già dal titolo si apprezza lo sforzo dell’autore di individuare distinzioni semantiche che corrispondono a modi diversi di procedere. La diagnosi come nome è un’invenzione per pensare ad una cosa di cui non si conosce ancora il significato, mentre il diagnosticare è un processo dinamico che si intreccia con quello terapeutico e ne orienta lo sviluppo. La funzione del diagnosticare si ottiene facendo ricorso ad una modalità oscillatoria della mente che consenta di mantenere una visione “strabica”, la quale, contrariamente alla visione binoculare bioniana, permette di mantenere il fuoco su alcuni aspetti, lasciandone sfuocati altri, in un continuo “fochettare” che aiuta, in modo dinamico, ad avvicinarsi alla complessità del fenomeno osservato, ovvero della persona sofferente. Il passaggio dall’uso oggettivante della diagnosi (nome) ad un suo uso evolutivo e dinamico (verbo) contribuisce ad intercettare i cambiamenti dei pazienti durante la cura e a mantenere viva quella tensione tormentosa del clinico rispetto alla diagnosi, che evita di trasformare la stessa in un’entità fissa dal destino ineluttabile o addirittura in una pietra tombale. Nel processo del diagnosticare, inteso come guardare attraverso o “traguardare”, il clinico può utilizzare tre vertici di osservazione: attraverso i sintomi conosco il disturbo, attraverso i sintomi conosco la persona e attraverso la persona conosco meglio i suoi sintomi. Questi tre organizzatori devono coesistere nella mente del clinico, con la possibilità di oscillare tra l’uno e l’altro, al fine di rendere la diagnosi un processo vivo e vitale, che si avviluppa a spirale con il processo terapeutico.

Nel suo contributo “Psychoanlysis yesterday, today, tomorrow” Allen Frances polemizza apertamente con gli Istituti Psicoanalitici che considera rigidamente chiusi in difesa di una specificità di tecnica e di metodo che rischia di determinare un isolamento scientifico e culturale della psicoanalisi stessa, sancendo una divaricazione incolmabile anche con la psichiatria e con la formazione universitaria. In questa difficoltà ad evolvere della Psicoanalisi e ad includere, nei suoi modelli, anche le recenti ricerche delle Neuroscienze, Allen Frances individua un atteggiamento opposto allo spirito del suo fondatore, in quanto lo stesso Freud avrebbe messo in discussione i suoi stessi modelli di fronte alle nuove scoperte. Diversamente, gli istituti psicoanalitici sembrano allinearsi con Freud quando mostrano la difficoltà a sentirsi progenitori di tutte le forme di psicoterapia dinamica e persino cognitivista, proprio come fece Freud di fronte alle proposte innovative di Ferenczi, il quale gettò le basi del ruolo della relazione interpersonale, dell’empatia, del ruolo attivo del terapeuta, dell’alleanza terapeutica, dell’esperienza emotiva correttiva e del controtransfert. La guerra tra diversi modelli di cura ha favorito, secondo Allen Frances, le industrie farmaceutiche e ha contribuito a sdoganare il modello del disturbo come legato a squilibri chimici. Allen Frances si augura un futuro meno isolazionista delle istituzioni psicoanalitiche, una loro maggiore flessibilità ad includere modelli diversi, in nome anche del potente fattore terapeutico rappresentato dalla relazione umana.

Con la sua relazione dal titolo “Psychonalisis, psychiatry and the new frontiers of mental distress”, Antonio Andreoli sottolinea come la scena odierna della salute mentale ci inviti ad instaurare un rapporto di maggiore collaborazione tra Psicoanalisi e Psichiatria, mediato da un’alleanza con la ricerca clinica e con l’impegno istituzionale. Vi è stato un cambiamento radicale nel volto dei nuovi pazienti psichiatrici e la clinica dei disturbi mentali ha amplificato a dismisura la richiesta di interventi in urgenza e di trattamenti acuti. I nuovi pazienti psichiatrici si prestano bene ad illustrare il “concetto di reazione” per la quale i servizi e le istituzioni psichiatriche sembrano poco attrezzati, in quanto ancora organizzati per i gravi e grandi disturbi della psichiatria di un tempo, mentre viene sollecitata una richiesta incessante di psicoterapia, per far fronte alla cosiddetta “clinica del reale”, che si confronta con la difficoltà ad elaborare relazioni traumatiche, perdite e abbandoni. La clinica dei nuovi pazienti ci confronta oggi con una grave instabilità della vita amorosa e con il ruolo assolutamente preponderante del malessere soggettivo nelle crisi emozionali, tanto da immaginarla più felicemente come una clinica del “revenant”, o degli spettri del passato, per sottolineare il rapporto con la dissociazione da un lato e con il rapporto più profondo dell’Io e del Super Io dall’altro. Anche la cura dovrebbe potersi pensare più come una “psicoterapia dell’abbandono”. L’incontro tra Psicoanalisi e Psichiatria potrebbe, quindi, avvenire proprio nella zona di frontiera rappresentata, per entrambe, dalla clinica “del limite”, colmando così quella pericolosa divaricazione tra le ragioni della Scienza e le ragioni del Soggetto, in cui sembra essere scivolato il rapporto tra Psicoanalisi e Psichiatria nella attuale “crisi della Modernità”. Una pratica sapiente e ben temperata delle vicissitudini dell’amore umano è quel fattore che dà una posizione unica e insostituibile alle competenze cliniche dello psicoanalista e dell’essere psicoanalisti in psichiatria.

Nella breve discussione della mattina vengono raccolte le varie sollecitazioni portate nei singoli interventi, ed in particolare le proposte di rinnovamento delle istituzioni psicoanalitiche. Tiziana Bastianini riprende la proposta politica di Allen Frances che la psicoanalisi diventi il contenitore delle varie psicoterapie, sostenendo piuttosto che gli psicoanalisti si devono battere per la specificità del loro metodo, ma declinandolo in modo flessibile ed estensibile ai diversi pazienti, in modo da uscire dalla sterile contrapposizione tra psicoanalisi e psicoterapia e individuare le invariati del modo di funzionare analiticamente in diversi setting.

Anna Maria Nicolò aggiunge a ciò l’importanza di favorire il confronto sulla visione della psicoanalisi come un modello estendibile a vari setting e per vari pazienti, anche a livello delle Istituzioni e del Training. Lingiardi sottolinea come continuino ad essere importanti i fattori specifici della tecnica e del metodo psicoanalitico (transfert, contro-transfert, analisi dei sogni), affiancandoli però anche a ciò che il paziente sente essere “specifico” per sé. Infine viene ripresa l’utilità e l’importanza di rimanere aperti, come clinici, a sostenere la tensione ed il tormento per la diagnosi.

Nel primo intervento del pomeriggio, “Per una diagnosi interattiva in età evolutiva”, Marco Mastella sottolinea come, in ogni processo diagnostico, vi sia un implicito bisogno difensivo di controllo dell’angoscia sollecitata dalla relazione con un altro sconosciuto. Perciò diventa prioritario, nella fase della valutazione diagnostica, cogliere la “verità” del soggetto e non imporre il proprio sapere sull’altro, soprattutto in età evolutiva, quando le organizzazioni patologiche della personalitàdel soggetto sono in trasformazione permanente ed è fondamentale poter distinguere tra “rischio evolutivo” e stato patologico in sé. In età evolutiva, inoltre, la diagnosi deve contemplare la valutazione congiunta del bambino e dei genitori. Perciò l’approccio diagnostico di uno psicoanalista sul campo è da subito interpersonale e interattivo, in quanto mira immediatamente a far sì che entrambi i soggetti della valutazione creino legami e collegamenti con parti frammentate, dissociate della loro storia, delle loro relazioni e delle loro menti. Nella consultazione terapeutica si può creare quello spazio idoneo ad un ascolto profondo del bambino e dei genitori, fino alla restituzione finale, che viene comunicata solo dopo essere arrivati alla ripresa dello sviluppo di quel bambino e di quel gruppo familiare, che sarà quindi più ricettivo a dare un senso a ciò che è accaduto in esso e nel bambino. Una diagnosi dinamica deve poter restituire il sentimento di “appropriazione” e la funzione di “reverie" alla madre e insieme riavviare un processo di “affiliazione” nei genitori, in parallelo alla diagnosi clinica.

L’intervento di Giovanna Montinari dal titolo “Dal concetto di Breakdown al transfert di Breakdown: un contributo al processo diagnostico in adolescenza” si apre con un ringraziamento caloroso e commosso a Gianluigi Monniello, per i suoi contributi teorici oltre che per aver coordinato il gruppo di ricerca sul Breakdown evolutivo, gruppo nato per un confronto di esperienze tra analisti impegnati nella cura di giovani adulti e adolescenti anche in servizi territoriali, uniti dal riferimento teorico comune del concetto di Breakdown descritto da Winnicott nella “Fear of Breakdown” e della nota teorizzazione dei coniugi Laufer. La diagnosi in età evolutiva porta a conoscere il sé segreto dell’adolescente e si configura come un processo di soggettivazione, che tiene in considerazione anche le "azioni soggettualizzanti”, ovvero quel contributo del paziente durante la crisi che può essere letto come una spinta a soggettivarsi. L’adolescenza, che rappresenta una età di trasformazioni continue, impone modifiche nella teoria e nella tecnica psicoanalitica nella direzione di una maggiore intersoggettività, che privilegi l’ascolto rispetto all’interpretazione. Interessante corollario del concetto di breakdown evolutivo è il riconoscimento della possibile esistenza anche di un transfert di breakdown, ovvero della ripetizione, nella relazione con l’analista, del rifiuto del corpo sessuato che ha generato il crollo. Gli agiti auto o eterolesivi e l'attacco alla relazione diventano allora il rifiuto del corpo sessuato che è rappresentato dall'altro. L'analisi di tali dinamiche fornisce una seconda occasione per risignificare un crollo avvenuto già in precedenza, insieme a garantire un'esperienza conoscitiva secondo il senso profondo della diagnosi come un "guardare attraverso". È fondamentale che l'analista garantisca il setting con la propria presenza, fornendo quell'ascolto che deriva da una familiarità e da un rapporto vivo con la propria adolescenza. La proposta del setting all’adolescente deve veicolare una proposta di intimità e vicinanza, fugando il rischio di un ritorno ad una fusionalità indifferenziata, così che il paziente ritrovi il suo ruolo attivo ed efficace nella cura di sé e le potenzialità per rielaborare il crollo. In alcuni casi possono essere fondamentali quelle aree intermedie\transizionali di lavoro come i dispositivi esistenti a livello territoriale (case famiglia, laboratori, centri diurni), considerabili come dei siti analitici mediante i quali l’adolescente può recuperare la fiducia nelle capacità elaborative del proprio apparato per pensare.

Nel suo intervento dal titolo "I recenti sviluppi nelle teorie psicoanalitiche dell'azione terapeutica nella psicopatologia dell'adulto" Paolo Boccara si interroga sull’importanza di comprendere “cosa succede” nel campo della salute mentale e del rapporto con il paziente, immaginando di poter sostituire il dialogo tra psichiatria e psicoanalisi con ciò che accade tra le persone coinvolte nella cura. Se la diagnosi dimensionale implica l’attivazione di una dimensione continuativa dell’ascolto, bisogna essere consapevoli delle trasformazioni nel tempo dei pazienti e della relazione con loro, attrezzandosi a predisporre setting-ambienti di volta in volta variabili, per riuscire così anche a contemplare quegli “eventi imprevisti” che generano vissuti di incertezza. L’autore ricorda quanto la relazione terapeutica con pazienti gravi sia sottoposta a continui scossoni che ne minacciano la continuità: inaccessibilità, interruzioni, attacchi. Tali rotture di assetti ed equilibri raggiunti generano una fatica controtransferale gravida del peso di una implicita domanda di controllo sociale delegata alla funzione di cura. Nel campo della salute mentale l’affetto prevalente è un intollerabile senso di insicurezza, che si tende ad eludere attraverso soluzioni terapeutiche definitorie e coercitive o rimpalli di responsabilità tra familiari e curanti. Per “stare” con il paziente, senza entrare in una dinamica annientante, l’autore fa appello alla dimensione gruppale della mente, sia a livello individuale, sia a livello dei gruppi di lavoro, con tutta la difficoltà insita nello sforzo di riuscire a “pensare-sognare” insieme. Utilizzare una concezione dimensionale della diagnosi implica concepire anche la psicosi come dimensionale, ovvero come un continuum che lega i pazienti psicotici e i cosiddetti normali. Poter accettare la capacità dissociativa della mente come quella funzione che protegge da esperienze emotive soverchianti, non ci esime, in quanto analisti, dal cogliere il significato di quelle azioni più o meno sintomatiche che possono rappresentare l’irruzione di vissuti non elaborati e che spesso vengono confinate al di fuori del setting, attivando interventi per lo più farmacologici o assistenziali. Anche l’uso dell’enactment può diventare uno strumento di attualizzazione dell’inconscio della diade paziente e analista, con un potente significato conoscitivo e di conferma della natura bipersonale del processo analitico.

La giornata si conclude con la relazione dal titolo “Psicosi: una persona o due?” nella quale Andrea Narracci ripropone un modello della psicosi che coinvolge due o più persone, il paziente e i suoi familiari. L’interesse non è quindi più solamente al paziente, alla sua fenomenologia, bensì alle interdipendenze patogene tra lui e l’altro significativo. Questa visione produce un profondo cambiamento sia rispetto alla diagnosi, sia riguardo al trattamento. Di fatto implica un cambiamento della concezione della malattia mentale, la quale, non riguardando solo il singolo paziente, necessita di un campo terapeutico esteso, che includa il paziente e i familiari insieme, anche risalendo alla generazione dei nonni. L’ipotesi di fondo è che esista un lutto e\o un’esperienza traumatica non elaborati, che si trasmettono attraverso le generazioni, così ad esempio l’incapacità da parte di un genitore di elaborare la crescita e lo svincolo di un figlio contribuiscono a creare un’interdipendenza patogena che non fa conoscere le virtualità sane. In questo modo i familiari sono parte integrante del trattamento ed il paziente da essere oggetto di trattamento diventa soggetto di riflessione che porta a delle trasformazioni. I traumi non elaborati rimangono in aree dissociate inconsce e difficili da recuperare, se non nelle interazioni reciproche che si attivano nel Gruppo Multifamiliare. Nel trattamento anche gli operatori sono sottoposti ad un processo simile, con il proprio controtransfert, con i transfert multipli del gruppo, con la propria autoanalisi. Il nucleo dell’intervento, secondo il modello dei gruppi multifamiliari di Badaracco, riguarda la possibilità di recupero degli aspetti scissi della personalità con una risignificazione della propria vita con una mente ampliata.

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